domenica 29 novembre 2009

Da te non imploro, angelo, nient'altro che preghiere

Tornando a casa da un quartiere lontano, ho pensato ieri notte quanto sarebbe stato più comodo fermarsi a dormire lungo il cammino, piuttosto che attraversare, assonnato e infreddolito, l'intera parte orientale della città. Ho sùbito scartato l'idea di cercarmi un albergo, per via della spesa che ne sarebbe conseguita, nonché quella di chiedere a un amico l'uso del suo salotto: i divani sembrano riservare i peggiori torcicollo a chi li pensa come soluzione di emergenza. I soli luoghi che offrono amabili contropartite a queste e ad altre pene sono i bordelli! Quante disgrazie devono esser piovute sull'umanità, per guardare con la penosa severità attuale i casini! Mi sono ricordato del provvidenziale bordello di Versailles, dove Charles Baudelaire trascorse notti di piacere e desolazione in attesa che Philoxène Boyer ritornasse da Parigi coi denari. Nell'alcova, circondato dalle donne che i perbenisti di Versailles guardavano di sottecchi quando le incrociavano per la via, Baudelaire scrisse tre delle più belle poesie delle Fleurs du mal, dedicando L'Aube Spirituelle a Madame Sabatier:

Quand chez les débauchés l'aube blanche et vermeille
Entre en société de l'Idéal rongeur,
Par l'opération d'un mystère vengeur
Dans la brute assoupie un ange se réveille.

Des Cieux Spirituels l'inaccessible azur,
Pour l'homme terrassé qui rêve encore et souffre,
S'ouvre et s'enfonce avec l'attirance du gouffre.
Ainsi, chère Déesse, Etre lucide et pur,

Sur les débris fumeux des stupides orgies
Ton souvenir plus clair, plus rose, plus charmant,
À mes yeux agrandis voltige incessamment.

Le soleil a noirci la flamme des bougies;
Ainsi, toujours vainqueur, ton fantôme est pareil,
Ame resplendissante, à l'immortel soleil! *

Quei pensieri hanno causato un rivolgimento notturno che si è protratto anche in sogno. Nel dormiveglia, chiedevo a un critico d'arte draguer de femmes se conoscesse una casa di tolleranza che valesse la pena.

domenica 22 novembre 2009

Da un monumento all'altro

Scusate la seconda menzione consecutiva del bar El reportaje. Ma vivo uno di quei mesti periodi in cui mi è pressocchè impossibile restare in casa. Esco allora più che posso, a danno del fegato, delle vergini e del conto in banca. Il bar El reportaje è un locale appena passabile, dove usano burro e non margarina, preparano café con leche fumante e servono al tavolo senza esosi rincari. Non è lontano dall'appartamento dove sfortunatamente abito; vista l'aria che tira, mi accontento. Leggevo un estratto de "L'arte e la maniera di abbordare il proprio capoufficio per chiedergli un aumento", di George Perec. Mentre si fa colazione, si legge aspettando un punto, o un punto e a capo, col suo arioso cambiar di capoverso, per sorbire il caffè o spalmare col coltello burro e marmellata sul pane tostato. "L'arte e la maniera di abbordare il proprio capoufficio per chiedergli un aumento" non ha nemmeno un punto perchè non ha alcuna punteggiatura. Questo lo rende il peggiore dei libri da leggere durante la colazione.
Ogni volta che leggo un testo povero di punteggiatura, ripenso a un amico di Bologna. Agli appuntamenti che mi era impossibile onorare con puntualità, di solito in un bar, mi aspettava seduto al primo tavolino davanti alla porta, con un bicchiere di rosso in mano. Mai una volta che si sedesse al secondo tavolo, o al terzo, o che bevesse vino bianco. Scriveva dei brevi e divertenti racconti quasi privi di punteggiatura.
Proseguo. Il settimanale che conteneva l'anticipazione del libro di Perec, celebra a pagina 28 il centesimo anniversario della nascita di Eugene Ionesco. Un lungo articolo, dominato da una fotografia del drammaturgo che fuma un mozzicone di sigaretta, dice che l'incomunicabilità prende spesso le sembianze della prolissità. Un po' mi secca, ma credo sia un'involontario commento al libro di George Perec.



A questo punto, non posso fare a meno di ricordare quanto accaduto ieri sera, quando nel salotto dell'appartamento che ho sciaguratamente scelto per trascorrere i giorni d'autunno, sono convenuti degli amici di un mio coinquilino. L'arredamento provvisiorio da boheme di fine Novecento prescriveva l'uso dei cuscini di un divano inesistente per adagiarsi alla meno peggio. La musica usciva da un portatile Toshiba e il rum era trattato bruscamente, come se dovesse lui servire chi beveva e non il contrario. Un improvviso scarto della conversazione portò l'attenzione generale sull'Italia. Venni interrogato sulla mia provenienza. Firenze scatena sempre strane reazioni. "E' come un sogno", dice uno, "Ma quanti turisti!", dice l'altro. Il mio coinquilino, ferrato, riassume in una formula che credo di aver smesso di usare, per sfinimento, quando avevo quindici anni: "Meglio per i turisti che per chi ci abita: da un monumento all'altro... da un monumento all'altro... ci si annoia". Se l'avesse pronunciata uno sconosciuto, quella frase, avrei ricorso a una citazione di Stendhal e tutto si sarebbe risolto in una sgradevole risata. Ma costui non è per me uno sconosciuto, è l'individuo che rende così spiacevole il mio soggiorno, spero breve, in quest'appartamento. Perciò sbuffo:

- Si potrà pur fare qualcosa di divertente, tra un monumento e l'altro!

Ma ecco che ritorno col pensiero al bar El reportaje, dove sul settimanale ho letto che a Parigi, in questi giorni, si tiene una mostra sulle ultime opere di Renoir, che il pittore finì coi pennelli legati alle dita. Interrogato da Matisse:

- Perchè ti torturi così?

Renoir rispose:

- Il dolore passa, Matisse, ma la bellezza resta.

sabato 14 novembre 2009

Ci sono stati poeti, nei secoli (avevo digitato bei secoli), che hanno saputo vedere nella loro mente un'epoca lontana, forse la più remota. Essa ha pienato lo sguardo di uomini di ogni epoca, e con esso la loro voluttuosa percezione, e credo sia paragonabile a un archetipo. Anzi, estromettendo la prudenza dalla metafora: l'età dell'oro è uno degli archetipi a cui l'uomo paragona sempre e involontariamente la propria visione del mondo. Oggi, tra il letto e il bar El reportaje, ho letto di due di essi: Esiodo, vissuto ventotto secoli fa (avevo digitato bentotto=ben ventotto) e S.T. Coleridge, in vita due secoli fa.

Scrive Esiodo:

Ebbene, d'oro una prima stirpe di uomini caduchi
fu forgiata dagli immortali che hanno le olimpie dimore,
nell'età di Crono, quando egli regnava sul cielo:
vivevano come dei, con l'animo immune da affanni,
ben lungi da pene e miseria; né la vecchiaia
sventurata gravava, ma sempre integri nei piedi e nelle mani
nei banchetti prendevano piacere da ogni male al riparo;
e morivano come vinti dal sonno; ogni bene
era in loro possesso, e spontaneamente la terra feconda
copioso e facile frutto recava, ed essi, soddisfatti
e tranquilli, si spartivano dunqe raccolti colmi di beni

Questa descrizione, presa da Opere e i giorni, ritrae la vita dei primi uomini, creati dagli dei dopo la detronizzazione di Urano compiuta da Crono. Il che, per Esiodo, equivaleva forse a dire "dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo", o qualcosa di simile.

S.T. Coleridge:

In Xanadu Kubla Khan volle porre,
un divino palazzo del godere:
e il fece dove Alfeo, il sacro, scorre,
per le proibite all’uom, profonde forre
fino a dell’acque scure, sempre nere.
Così assai miglia di dolci terre ambite,
son d’intorno da muri e torri rivestite.
V’era nel campo il riflesso de’ ruscelli
ed eran assai folti l’albero d’incenso
e le foreste, vecchie come monticelli
che il verde circondavan, d’Elio accenso.

Questa traduzione, che ha il merito di salvare le rime dalla falce della traduzione, è tuttavia faticosa. Quella di Mario Luzi ha meriti e demeriti opposti.

I versi 1-11, benché seguiti dal tremendo verso Ma oh! quel cupo abisso fino al fondo... descrivono il luogo dove il poeta vede la fanciulla abissina che il latto delibò del Paradiso.

Le due visioni ci fanno capire, anche in un sabato fattivo come questo, pervaso da una snervante praticità, attraverso le visioni di un greco e di un inglese, perché non c'è stata epoca, dopo quella dominata da Crono, che non sia stata definita "decadente".

Come se ricordassimo ancora, con l'aiuto del sogno, qualcosa del principio.